L’intervento preparato da Alberto Magnaghi, urbanista, promotore della Società dei territorialisti, per i Colloqui di Dobbiaco svoltisi dal 28 al 30 settembre scorso.
Suolo, consumo, cementificazione, erosione di suolo, carenza di terreno e cosi via, rimandano ad una categoria di beni naturali relativi alla superficie della terra che sono alla base della riproduzione della vita: acqua (fiumi, falde, ghiacciai, laghi mari, oceani), aria, caratteri fisiografici e idrogeologici delle terre emerse (pianure, colline, montagne, coste, bacini idrografici), terreni fertili, vegetazione, fauna, foreste, fonti energetiche naturali e cosi via.
Tuttavia affrontare, il problema del consumo di suolo solo come impoverimento di una risorsa naturale sarebbe riduttivo, inefficace e in molti casi dannoso, in particolare per il territorio europeo.
In questo contesto è in atto da millenni un intenso processo di territorializzazione che vede successive civilizzazioni stanziali produrre processi di reificazione e strutturazione che, se pur con diversi approcci e mediances culturali (Raffestin, Berque), colonizzano (o meglio fecondano) la totalità dei suoli regionali e il cui risultato è il territorio, ovvero un neoecosistema frutto di processi coevolutivi (co-evolution, per Patrick Geddes) fra insediamento umano e natura. In Toscana non c’è un solo albero residuato dalle foreste primigenie (wildness). Ma neanche in Puglia, dove gli “spazi naturali” sono amplissimi. Questo territorio, la cui massa (Turco) è progressivamente aumentata nel corso delle successive civilizzazioni (che rimodellano lo stesso ambiente regionale, ora privilegiando le pianure ora i sistemi collinari e montani), costituisce l’ambiente dell’uomo. Ora, la possibilità di un futuro riequilibrio fra insediamento umano e risorse naturali sta interamente in una nuova civilizzazione antropica che riattivi i processi coevolutivi interrotti fra insediamento umano e natura che ha caratterizzato le civilizzazioni precedenti, prima del divorzio fra natura e cultura realizzato dalla civiltà delle macchine, industriale e postindustriale. Civiltà che oltre a indubbie degradazioni dell’ambiente naturale ha soprattutto degradato, impoverito, omologato, in molti casi distrutto l’ambiente dell’uomo, il territorio.
Ma mentre Gaia, il sistema vivente terra (Lovelok), troverà nuovi equilibri ecosistemici a prescindere dalla presenza umana, l’ambiente dell’uomo, se proseguono le regole insediative dell’attuale civilizzazione, è destinato a esiti catastrofici. Un piccolo esempio: le colate di fango che hanno invaso i paesi a mare delle Cinque terre in Liguria nella recente alluvione del 2011, partono dalla cima della montagna. Esse corrispondono esattamente alle aree di abbandono dei terrazzamenti coltivati, dove la rinaturazione del bosco ha sostituito il neoecosistema del terrazzamento. Molti ambientalisti vedono con favore la trasformazione di pascoli, e terrazzi coltivati in boscaglia, come aumento di naturalità. Per l’ambiente dell’uomo, l’abbandono produttivo della montagna e del suo presidio antropico millenario è una tragedia ambientale. Occorre dunque esplorare il passaggio concettuale e operativo da una visione “naturalistica” dei parchi che ha prodotto la cultura delle aree protette (protette si intende, attraverso vincoli d’uso, dalle regole dello sviluppo che presiedono all’organizzazione delle aree non protette) ad una visione, contenuta nell’aggettivo agricolo, che intende affidare la cura (e l’autoprotezione) degli spazi aperti ai soggetti che storicamente l’hanno egregiamente esercitata: gli agricoltori appunto, ridotti in via di estinzione dalla società industriale e dall’industria verde che ne è stata parte integrante.
A questo punto della trasformazione totale del suolo in territorio non si può tornare indietro al suolo naturale avendo oltretutto la popolazione mondiale urbanizzata superato quella rurale. Possiamo tuttavia pensare a una civilizzazione che realizzi un ritorno al territorio: ritorno alla terra (nuovi patti città-campagna per la qualità urbana e rurale), ritorno alla città (contro l’urbanizzazione diffusiva,mort de la ville,Choay), ritorno alla montagna, ritorno a sistemi produttivi locali. In questo ritorno al territorio e al suo autogoverno sociale consapevole e partecipato sta la possibilità di realizzare nuovi equilibri nell’uso antropico del suolo, ristabilendo i confini della città, costruendo parchi agricoli multifunzionali, ripopolando le alte colline e le montagne come presidi produttivi, per la difesa idrogeologica e il riequilibrio regionale degli insediamenti.
2) I beni comuni territoriali
Il territorio costruito nel tempo lungo dalle civilizzazioni attente ai processi coevolutivi, su cui oggi viviamo, è dunque un prodotto sociale per eccellenza e dunque va trattato come un bene patrimoniale comune.
Quando parliamo di patrimonio territoriale (riferito a tutto il territorio regionale e non a specifiche aree protette –“naturali” o “culturali”-, compensative delle aree “non protette” dove vigono le leggi dell’economia), parliamo di un insieme di beni che costituiscono un “capitale fisso sociale” costruito nella lunga durata, articolato in due grandi categorie:
– beni materiali (paesaggi rurali storici, città, infrastrutture, bonifiche, canali, sistemi irrigui, terrazzamenti, boschi coltivati);
– beni cognitivi (sapienze e saperi ambientali, saperi costruttivi, artigiani, rurali, artistici, tecnici; modelli socioculturali, milieu socioeconomici locali e cosi via).
Il percorso della modernizzazione capitalistica, nella sua autonomizzazione artificiale dell’insediamento umano dalla natura e dalla storia, è un percorso di distruzione progressiva di beni patrimoniali materiali e di spogliazione delle popolazioni dai beni cognitivi. Contro questo processo di distruzione e spogliazione, utilizzare la categoria dei beni comuni (common goods) per i beni territoriali è molto utile per stabilire nuovi modelli di efficienza oltre stato e mercato (Olstrom), e per progettare nuovi modelli di valorizzazione patrimoniale del territorio come bene comune, che si pongano come alternativa strategica e reazione collettiva ai modelli socioeconomici fondati sulla privatizzazione e la mercificazione generalizzata delle relazioni sociali e individuali.
Per attivare questa progettazione non è più sufficiente dunque considerare il territorio come bene pubblico (che lo stato, le regioni e gli enti locali possono vendere per far cassa, come sta avvenendo per molti beni demaniali); occorre che sia considerato come un bene comune, che non può essere venduto né essere usucapito, alla stregua delle terre civiche storiche. Occorre cioè individuare forme di gestione, introducendo processi partecipativi di cittadinanza attiva, che consentano di riprendere il senso (non necessariamente la forma storica degli usi civici, ovvero: a) la finalità non di profitto, ma di produzione di beni, servizi e lavoro per i membri della comunità e, più in generale, beni e servizi di utilità collettiva; b ) la forma della comunità, costituita da una pluralità di abitanti/produttori di una collettività territoriale, che si associano per esercitare un uso collettivo dei beni patrimoniali della società locale; c) l’uso collettivo conforma le attività di ogni attore allo scopo comune della conservazione e valorizzazione del patrimonio, la salvaguardia e valorizzazione ambientale, paesistica, economica del patrimonio stesso in forme durevoli e sostenibili (autoriproducibilità della risorsa), sviluppando forme di autogoverno responsabile delle comunità locali.
3) la gestione collettiva dei beni comuni territoriali
La sperimentazione a livello regionale di modelli socioeconomici fondati sulla valorizzazione dei beni comuni patrimoniali secondo queste forme gestionali, può assumere oggi una portata strategica. L’orizzonte di questa trasformazione comporta il rafforzamento delle società locali per consentire il loro allontanamento dalle reti globali della finanza e della tecno-scienza, verso l’autosostenibilità ambientale, sociale, culturale.
Le mobilitazioni dei comitati e dei movimenti hanno evidenziato negli ultimi anni la centralità del territorio come bene comune sui due aspetti: nei processi di ricostruzione di forme di cittadinanza attiva, di democrazia partecipativa, di ricostruzione di aggregati comunitari, di spazio pubblico di re-identificazione delle popolazioni insediate con i propri ambienti di vita; e nella evidenziazione dei valori patrimoniali (ambientali, urbani, territoriali, paesaggistici, socioculturali) che possono costituire la base della produzione di ricchezza durevole attraverso nuove forme di autogoverno della società locale.
Una fitta rete di associazioni, cooperative, strutture del terzo settore e di economie solidali, può contribuire, se valorizzate dai governi locali, alla progettazione di un sistema sociale di produzione e gestione dei beni comuni:
– costruendo aggregati societari fra cittadini-produttori, neocontadini, microimprese, artigianato, banche locali, società di azionariato popolare, imprese a valenza etica (ambientale, sociale, commerciale, ricerca, innovazione, ecc);
-costruendo patti città campagna per gestire i mezzi di riproduzione della vita: suolo, acque, cibo, salute, rifiuti, energia, ambienti di vita (paesaggi dei mondi di vita, secondo la Convenzione europea del paesaggio);
-rafforzando e innovando attività produttive e filiere integrate (orizzontalmente e verticalmente) connesse alle peculiarità dei beni patrimoniali locali e regionali e promuovendo scambi nel mondo di tipo cooperativo e solidale;
-attivando patti e contratti collettivi per la riqualificazione delle periferie, delle riviere fluviali (vedasi l’estensione delle esperienze dei contratti di fiume), per la gestione dei parchi agricoli periurbani, dei rifiuti, della produzione energetica locale e cosi via.
I beni demaniali e gli usi civici residui, invertendo la deriva in atto dell’alienazione e della privatizzazione, potrebbero essere valorizzati, in questo contesto più generale, come laboratori sperimentali per forme collettive di ripopolamento rurale; il tema della proprietà collettiva degli usi civici si potrebbe trasferire in forme associate e pattizie fra enti pubblici e produttori/abitanti per la gestione delle terre: innescando un ripopolamento che attiva sinergicamente funzioni produttive, energetiche, paesistiche, economiche, e di elevamento di qualità della vita delle città; rivalutando nel contempo il ruolo degli agricoltori quali fornitori di beni e servizi pubblici.
Il problema principale di questa prospettata inversione di tendenza è che non si può dare una gestione del territorio come bene comune se esso è gestito da una sommatoria di interessi individuali in una società individualistica di consumatori. E’ necessario dunque che esistano forme di reidentificazione collettiva con i giacimenti patrimoniali, con l’identità di un luogo, con il valore della terra; ovvero che sia riconosciuto agevolato il cambiamento politico-culturale che i recenti processi di mobilitazione sociale e di democrazia partecipativa hanno avviato innescando propensioni al produrre, all’abitare, al consumare in forme relazionali, solidali e comunitarie.
L’introduzione di questo terzo attore comunitario (attraverso la proprietà e la gestione collettiva di beni comuni) nella gestione e governo del territorio, favorirebbe una trasformazione politica generale, nel senso di bloccare i processi di privatizzazione e mercificazione di beni comuni e di riattribuire all’ente pubblico territoriale il ruolo di salvaguardia dei beni stessi e della valorizzazione del patrimonio civico; favorirebbe inoltre la ricostituzione di momenti comunitari di gestione delle risorse favorendo la crescita di economie solidali e integrate, dall’agricoltura al terziario avanzato, fondate sulla valorizzazione del bene comune territorio.